giovedì 19 agosto 2010

Lettere dall'Afghanistan

Cari amici,
questa e' l'ultima lettera che vi scrivo dall'Afghanistan (per fortuna!Dira' qualcuno). Fra ultimi report e relazioni da scrivere , saluti da fare, mi ritrovo a scrivervi. Sarebbero cosi' tante le cose da dire! In questi ultimi giorni stanno venendo a galla la stanchezza, i suoni, i volti, gli odori, i momenti belli  e quelli duri, e mi sento come un fiume in piena sul punto di rompere gli argini, proprio io che cerco sempre di mediare e porre riparo a tutto. In questi mesi ho cercato di capire, di ascoltare di partecipare ad una vita, in un paese, in una cultura totalmente diversa dalla nostra. Sono arrivato qui e mi disperavo perche' non capivo nulla, nemmeno gli afghani quando parlavano inglese (e in pochi di loro lo parlano); a Kabul i ritmi di lavoro erano allucinanti, ma non erano quelli che mi spaventavano; era il continuo ricorso alla violenza sulle persone, da parte di altre persone, che mi faceva sentire impotente, smarrito, piccolo, insignificante. Pare che qui non ci sia altra soluzione che la violenza, in tutte le sue forme, la gente non conosce altro. Kabul e' uno di quei "sotterranei della storia" (Zanotelli) che piu' mi hanno impressionato nella vita. Immergersi in quella polverosa, fatiscente e distrutta citta' e' come una discesa negli inferi, nel lato piu' oscuro dell'animo umano; eppure, nonostante le paure sentivo forte l'esigenza di esserci, di partecipare, di impegnarmi. Sono andato avanti, cercando di conoscere gli afghani, i miei colleghi, cercando di capire. La fortuna non mi ha voltato le spalle, dopo 20 giorni mi hanno proposto il Panjshir, i progetti sul territorio, i fap, la prigione, una sfida  che ho subito raccolto ed accettato. Sono partito. Il primo impatto e' stato ancora piu' forte di Kabul, questa e' la terra dei mujhaeddin, i guerrieri santi e del loro comandante Ahmad Sha Massud, un eroe, qui venerato come un santo. La sua figura e' ovunque, sui vetri delle macchine, nelle baracche, nel bazar, persino nelle nostre cliniche. Qui mi sono scontrato con altri problemi ; oltre alla normale chirurgia di guerra (pevalentemente conflitti a fuoco fra civili, mine antiuomo) mi sono occupato di tanta medicina di base, di educazione sanitaria. Questo e' un lavoro incredibile, manca proprio la cultura della assistenza di base nella gente; mi aspettavo anche qui di trovare diffidenza e invece ho ricevuto anche qui amicizia. Piano piano i risultati (mi ponevo piccoli ma raggiugibili obbiettivi di volta in volta) si sono fatti vedere; cosi come anche il rispetto da parte dei colleghi afghani, che va conquistato giorno dopo giorno. I ricordi sono tanti e di tante cose potremo parlare se ne avrete voglia; ora qui gli afghani sono tristi perche' me ne vado :''resta altri due anni!" mi dicono. Io, in questo vortice di emozioni, rimango sempre col pensiero che quello che ho provato a fare non so quanto servira' per il futuro, e' difficile pensare che, forse, i risultati si vedranno fra anni. e' un processo estremamente lungo; diciamo che ho gettato dei semi, ma (e di questo sono certo) quando i frutti cresceranno, saranno frutti buoni e disponibili per tutti. Lo dovevo a me stesso, per tutti gli anni in cui cullavo il desiderio di essere qui, di patecipare, di vedere, di esserci. Sicuramente non e' stato un passaggio indolore, ma ne e' valsa la pena, sono felice di averlo fatto. L'altro ieri mi sono fermato alla tomba del comandante Massud, morto ammazzato senza poter vedere il suo paese unito e libero dagli invasori stranieri. Stanno costruendo un mausoleo enorme; ma la tomba e' davvero semplice e di incredibile impatto, il mio inteprete e l'autista si sono messi subito a pregare, un mujhaeddin triste, in mimetica e pakol (il loro tipico cappello) rimaneva immobile e impietrito davanti alla lapide, come se aspettasse qualche improvviso ordine dal suo comandante, di fuori, qualche blindato e cannone russo distrutti e consumati dal tempo, come un monito per i futuri invasori, monito inascoltato. Sotto di me, la meravigliosa valle di Bazarak , dove Massud e' nato e dove ora riposa. Questa e' l'ultima fotografia che ho stampato nella mia mente, quella che mi porto a casa, la valle di Bazarak con i campi di grano e il fiume Panjshir che score tranquillo, come se la guerra non fosse mai esistita,come se non avesse anche lui dovuto portare i corpi di giovani tagichi e russi morti ammazzati, come se la sofferenza, la distruzione, il dolore, le perdite umane, la violenza, come se tutte queste cose possano un giorno passare e sparire chissa' dove, come da sempre fanno le sue placide acque d'argento.
Un abbraccio
Matteo



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