lunedì 23 agosto 2010

Samlot, andata e ritorno dall'inferno

Cambogia

Battambang,  Aprile 2005

È mattina presto quando io e Ivan varchiamo il cancello dell'ospedale di Emergency, a Battambang.
Le guardie (rigorosamente disarmate), ci attendono al varco, ormai ci conoscono, ma ci devono perquisire ugualmente, è la regola.
Entriamo, di nuovo il bel giardino tropicale dell'ospedale, mi infonde un senso di tranquillità.

Noun, linfermiere responsabile del F.A.P. di Samlot non è ancora arrivato, così io e Ivan ci mettiamo seduti sul muretto a chiacchierare.
Mezz'ora dopo arriva un simpatico Khmer, che ci viene incontro con un sorriso amichevole, è Noun!
Partiamo.
Arriva il pick-up di Emergency, saltiamo sul cassone del pick-up, Noun e l'autista sono nella cabina di guida.
Nella piazza di Battambang facciamo la prima (ma non ultima) fermata; Noun scende e al suo ritorno salta sul cassone del pick-up con noi, se davanti non cè posto per tutti, allora si sta tutti dietro, incredibile!
Lentamente ci allontaniamo da Battambang, i Tuk-Tuk (moto, con rimorchio) portano di tutto e di più, turisti, bombole del gas, grasse scrofe vive. Le case, le latrine a cielo aperto svaniscono, ci troviamo circondati solo da una vegetazione a dir poco lussureggiante.
Il pickup inizia ad andare a velocità folle, non esiste più lasfalto e i salti del fuoristrada alzano cumuli di polvere, che fanno svanire nel nulla i motorini e le macchine, che sistematicamente superiamo.
Noun sembra divertito, ci indica i villaggi più o meno importanti dei che attraversiamo, perlopiù capanne di fango e paglia, palafitte di legno per i più abbienti.
Ogni tanto compaiono grandi cartelli ai bordi delle strade, sono disegni immensi, che raffigurano contadini, o bambini vittime di mine antiuomo; sono le istruzioni per luso per tentare una vita quasi normale, cosa fare, cosa non fare.
Noun non ci fa caso.
Facciamo una  sosta.
Siamo tutti coperti di polvere, entriamo in una specie di bar, fuori la luce è accecante, linterno del locale è semi-buio; il classico odore di cibo fritto ci assale, ci sediamo; l'autista ordina una cosa incomprensibile, noi non rischiamo e prendiamo un thè.
Mentre aspetto faccio un giro per il locale, i pochi clienti sono irresistibilmente attratti dal Karaoke, che tutte le tv Cambogiane trasmettono giorno e notte, che sembra essere l'unico svago in questo paese.
Il cameriere pulisce il tavolo dai resti di cibo dei precedenti clienti con un abile colpo di mano, getta tutto a terra; guardando il pavimento mi rendo conto che è pieno di resti alimentari, di cui si nutre un cane che gironzola li attorno, Noun mi spiega che lo puliranno a sera.
Ripartiamo, aumentando velocità il paesaggio cambia ancora, attraversiamo una zona simile alla savana africana, se non fosse per le palme, poi ci addentriamo nella giungla vera e propria.
Attraversiamo un ponte di tronchi che sovrasta un grande fiume, siamo finalmente arrivati nel distretto di Samlot.
Ci fermiamo in un piccolo centro, dove lasciamo il pick-up e prendiamo l'ambulanza, cioè un fuoristrada con dentro una barella e una bombola d'ossigeno.

Abbiamo qualche minuto libero, il sentiero che porta al centro è molto stretto, credo non più di un metro, voglio curiosare un po in giro, ma subito Noun mi ferma , senza proferire parola, mi indica un cartello rosso, con una incomprensibile scritta khmer e  un teschio bianco disegnato; non mi serve continuare a leggere la scritta in inglese sotto il teschio per comprendere che mi trovo su una piccola parte bonificata di un terreno minato!
La prima reazione è di incredulità, poi al di là del cartello, fra la vegetazione, vedo delle capanne, degli uomini lavorare, dei bimbi giocare: vivono su un campo minato.
Provo una sensazione di rabbia mista a sdegno, mi sembra impossibile che lì si possa condurre un esistenza normale, su un campo minato.
Mentre partiamo con l'ambulanza parlo con Noun di tutto questo, mi dice che semplicemente non c'è alternativa, perché la povera gente in quella zona possiede tutto ciò che le permette di andare avanti: una capanna, un piccolo orto, i figli, ma anche le mine.


Iniziamo il giro dei FAP (First Aid Post) gestiti da Emergency sparsi nella giungla.
Intravediamo il primo, poi uno scossone mi fa capire che abbiamo forato una gomma, entriamo nel cortile del FAP su tre ruote, ma mentre il nostro driver cambia la ruota noi ci avviciniamo ad una costruzione di cemento fatiscente, con delle grate di ferro alle finestre al posto dei vetri .Questo è un FAP  "governativo" di cui però si fa carico Emergency.
Mi addentro.
Ci sono dieci letti di legno in fila, la metà è occupata da pazienti, perlopiù giovani.
Cè un forte odore di disinfettante.
In quel momento si sentono delle grida in cortile, esco, vedo un motorino arrivare, con a bordo tre persone; i due seduti all'estremità stanno sorreggendo l'uomo al centro, che sembra essere privo di sensi e che stia strisciando il piede destro scalzo a terra, tanto da essersi consumato tre dita in un impasto scuro di sangue e terra.
Degli uomini in cortile lo portano su uno dei letti del FAP, è un uomo sulla trentina, privo di coscienza, molto sudato:
non respira.
Noun incomincia a praticare il massaggio cardiaco, mi chiede se intanto posso mettere una flebo a quell'uomo, lo faccio subito.
Noun non ce la fa più a continuare il massaggio cardiaco, così gli dò il cambio. 
Sono attimi frenetici, io continuo a massaggiare.
Dopo un po' decidiamo di smettere, quell'uomo è morto.
Gli uomini che l'hanno portato qui ci dicono che si è suicidato, con delle compresse di chinino e alcool.
Saliamo in macchina, sono completamente sudato, Noun si gira, con calma lapidaria mi dice che l'errore è stato suo, non nostro.
Incasso la prima  (ma non ultima) lezione della giornata del nostro amico cambogiano, andiamo avanti. 
Passiamo attraverso fitte boscaglie, discese molto ripide seguite da salite al limite; poi arriviamo alla Guest House di Emegency, punto di riferimento per gli abitanti dei villaggi vicini e lontani.
La nostra stanza è fatta da muri di legno, grate alle finestre, due brande, siamo felici allidea di passare la notte lì!
Mangiamo, poi iniziamo il giro dei vari FAP.
Va detto che tutti questi FAP non sono stati creati da Emergency, su alcuni riesco a leggere a malapena la sigla scolorita dellUNHCR (ONU), ma sono diciamo gestiti e mantenuti da Emergency, con forniture di farmaci e di personale addestrato; in caso contrario sarebbero destinati a chiudere perché nessun altro se ne prenderebbe cura.
Questo sarebbe una vera disgrazia per gli abitanti dei villaggi (non pochi) che, oltre alle mine antiuomo, hanno a che fare con la malaria, AIDS,  cobra, nonché con sbandati e criminali, eredità lasciata dagli ultimi Khmer rossi.
Visitiamo un centro dopo laltro, guadiamo fiumi con la jeep, perché i ponti principali sono stati abbattuti durante il periodo dei Khmer Rossi, della guerra col Vietnam, dai bombardamenti americani degli anni '70.





Noun ci spiega che effettuare questo giro durante la stagione delle piogge è particolarmente difficile e rischioso, perché le strade si trasformano in fiumi di fango; talvolta i feriti da mina vengono portati in barca lungo i fiumi, poi bisogna raggiungere un posto dotato di radio per comunicare all'ospedale di Emergency (distante 4 ore) la necessità di un'ambulanza.
Si deve guidare velocemente fra torrenti in piena, strade di fango, laghetti, poi caricare il ferito e tentare di stabilizzarlo, solo allora si può riprendere la strada per l'ospedale di Emergency.
Appare chiaro che se una persona è gravemente ferita, nella maggior parte dei casi muore dissanguata.
Mentre andiamo verso l'ultimo FAP, parliamo con Noun del passato regime dei Khmer Rossi, è incredibile sentire delle testimonianze simili da chi l'ha vissuto.
Lui stesso ha avuto dei lutti in famiglia, perché si trattava di una famiglia benestante ed istruita, due fattori che Pol Pot e i Khmer non tolleravano; le persone che vivevano nelle città vennero deportate nelle campagne per costituire "cooperative" agricole.
Nel cortile dell'ultimo FAP ci sono dei ragazzi che giocano con un pallone ed una vecchia rete da pallavolo; noi ci buttiamo nella mischia,giochiamo con loro, mi sembra di essere con i miei amici, in Italia, solo che noi giochiamo in quel fazzoletto di terra sminato, loro invece vivono li intorno, in territorio minato.
Ci allontaniamo, arriva l'ennesimo imprevisto, non possiamo dormire nel FAP perché il padre di Noun è gravemente malato; così si torna indietro verso sera, a Battambang.
Inizia a piovere, le strade diventano piccoli torrenti, il paesaggio è fenomenale, sulle montagne in lontananza si addensano immense nuvole scure, laggiù al confine con la Thailandia si trova una delle zone più minate al mondo, ma anche le note miniere di pietre preziose.
La Jeep corre veloce su queste strade di fango, dal finestrino vediamo dei Khmer in bicicletta o in motorino, che cercano di mantenere un equilibrio precario, stracarichi come sono sarà difficile!
Mi allontano, ripenso con tristezza ai volti della gente che ho conosciuto oggi, alla loro vita nei campi minati, ai drammi che si consumano quotidianamente in queste zone, all'orrore delle mine antiuomo, progettate per distruggere la speranza, per rendere invalide le future generazioni.
Penso poi al disinteresse totale, all'indifferenza del mondo "civile" nei confronti di questo gravissimo problema, di questa vergogna dei nostri giorni, e di quelli futuri.

Matteo

Gli angeli neri del Mariele



Quella che vi racconto è una storia triste, ma anche di speranza. Nella missione africana di Mutoko, Zimbabwe, c'è un posto molto speciale. Si tratta del "Mariele", una casetta bianca con il soffitto di lamiera: è un piccolo orfanotrofio. Quando entrai per la prima volta al Mariele, nel Gennaio 2004, non sapevo nemmeno cosa fosse; i miei passi risuonavano nel corridoio, che dà subito sulla "stanza dei giochi", dove però non c'erano giochi!C'erano in compenso una quindicina di bambini, che mi hanno guardato con stupore, prima di corrermi incontro con gioia e di sommergermi nella loro vitalità!Da quel giorno abbiamo passato momenti molto belli e divertenti, ma che mettono anche una grande angoscia per la situazione con poche speranze in cui sono quei piccoli già grandi. Dopo un mese me ne andai, giurando a me stesso che non avrei più dimenticato il "Mariele", e così è stato. Nel Novembre scorso ci sono tornato, tutto era rimasto uguale, lo stesso odore acre, lo stesso disordine, la stessa disarmante accoglienza festosa...Mi ha molto colpito il fatto di non ritrovare che quattro dei tanti bambini che avevo lasciato l'altra volta; e di certo non sono stati addottati. Al "Mariele" succedono cose strane e incredibili, come per Ashley e Ashton, due gemellini i cui genitori sono morti di AIDS. Loro sono risultati negativi al test, si sono "negativizzati". Ashton è un bambino molto generoso, e quasi "discreto"  quando ti si avvicina, sua sorella Ashley è una ballerina nata!Avreste dovuto vederla, mentre improvvisava passi(mai imparati) di danza moderna, su una musica che non c'era, che non ha mai sentito, se non dentro di se.

ASHTON




ASHLEY




Il vero leader è Chamyso!Lui c'era anche nel 2004 e non è cambiato; ha la stoffa del capo e spesso risolve le inevitabili controversie che ogni tanto nascono. Chamyso vuole essere sempre il protagonista dei giochi, il primo a ricevere le caramelle, il primo a buttarsi in giochi sfrenati  e ad inventarsene di nuovi!Non vuole saperne di imparare a leggere.
CHAMYSO




 Un bambino che non ho mai dimenticato da quel Gennaio 2004 è Innocent: mai nome fu più appropriato. Non sapevo niente di lui, l'ho conosciuto che aveva circa tre anni, era sempre silenzioso, quando mi vedeva mi correva  incontro, io lo alzavo in aria per giocare, lui mi abbracciava; poi andavamo sull'altalena arrugginita del "Mariele", me lo mettevo sulle ginocchia e dopo esserci dondolati, ce ne stavamo lì seduti, immobili, in silenzio per dei pomeriggi interi. Quando gli ho detto che sarei partito, l'ho abbracciato forte, lui mi ha dato delle piccole pacche sulla schiena, mi stava consolando...Ho pianto. Non c'era più bisogno di parlare, anche perchè era impossibile capirsi a parole. Da quel giorno l'ho pensato spessissimo, mi è venuto a trovare nei sogni, a volte eravamo felici insieme al "Mariele", a volte era qui con me a casa mia, a volte era il protagonista di incubi orrendi, di morte e disperazione. Quando l'ho rivisto ho provato un tuffo al cuore, quanto era cresciuto! Gli ho chiesto se si ricordava di me, ha ingrandito i suoi stupendi occhi neri e mi ha fatto cenno di si col capo, ci siamo abbracciati come se non ci fossimo mai lasciati.

Innocent all'età di tre anni




Innocent adesso



Il tempo, al "Mariele" non esiste, è un concetto senza senso, puoi arrivare in qualunque momento, e i bambini saranno sempre sospresi di vederti, poi non sanno quanti anni abbiano; Al "Mariele" non hai più un nome, hai il nome che i bambini scelgono per te; e tutti i ragazzi bianchi che vanno lì si chiamano "Ciao!"; è inutile opporsi. Al "Mariele" vivono creature fragili e indifese, come Paul, quattro anni; appena nato si è ammalato, una encefalite lo ha ridotto ad uno stato pietoso; non riesce a camminare, non parla, non ride, non piange, mai. Paul sta seduto sul pavimento appoggiato sulle lunghe braccia. Noi proviamo a coinvolgerlo con le bolle di sapone, ma mentre gli altri bambini  si scatenano in furibonde corse a chi scoppia per primo la bolla, lui non si muove e se le fa scoppiare in faccia; ci sono attimi in cui ti guarda in un modo così intenso da dover distogliere lo sguardo, allora ti sembra che capisca tutto, che sia cosciente della sua disperata situazione, in quei momenti lo accarezzi e gli metti in bocca una caramella. Una mattina Erika è andata al "Mariele" prima del previsto, per aiutare la mami a lavare i bambini (l'unica volta in tutto il giorno) e la mami piangeva, lei chiede dove sia Paul, i bambini (tutti dagli 1 ai 7 anni) si mettono le manine sugli occhi e li tengono chiusi, non c'è bisogno di parlare, al "Mariele". Paul adesso riposa in un cimitero sconsacrato (il perchè non l'ho mai capito) che è una zona di bosco piena di sassi, ogni sasso è una tomba; tutte pietre senza una lapide, una scritta, una foto. Non c'erano neanche i soldi per una piccola cassa da morto, così Paul è stato deposto in una scatola di cartone... 

PAUL... 





Il posto dove Paul riposa...







Un bambino che ho conosciuto al "Mariele" l'anno scorso e che mi è rimasto nel cuore è Kane, avrà forse tre anni ed è il bambino più dolce che abbia mai conosciuto. Kane è stato abbandonato, ma prima, la madre lo faceva cadere (da una scala o da una discesa) e così gli ha rotto il femore...All'ospedale della missione è stato curato e adesso corre, anche se si vede che l'articolazione non compie movimenti molto naturali. Kane ride in una maniera stupenda, ti si apre il cuore e ti dimentichi della massa di disgraziati che ci sono dentro e fuori dall'ospedale; lui è certamente il futuro leader del "Mariele", quando decide una cosa, quella si fa, che sia un gioco, o semplicemente essere preso in braccio; tu inutilmente gli spieghi che è tutto sporco di merda, ma lui ha deciso, quindi non ci pensi più e lo stringi a te. 

KANE




Al "Mariele" non ci sono invidie, i bambini sono solidali e dividono tutto, anche l'amore che i pochi volontari che vi si addentrano possono dare loro. Al "Mariele" non ci sono sprechi, i vestiti sono di tutti, anche se sono da bambina e li indossa un bambino; quando dai loro una caramella ringraziano sempre battendo le mani due volte, stessa cosa quando ricevono la quotidiana "Sazza", una polenta bianca con verdure o fagioli, l'unico loro alimento.

PRONTI PER LA CENA...




 L'ultimo giorno che sono stato al "Mariele" c'era un'atmosfera strana, come di attesa. Noi salutiamo e abbracciamo i bambini, Ken è nervoso e condivide il lettino con la Viki, una bambina stupenda che ci ha conquistato.

VIKI





 Alcuni piangono, i più grandi mimano il decollo di un aereo con la mano e indicano noi due, Innocent indica anche se stesso...No Innocent, non puoi venire con noi. Stiamo male, ma abbiamo per loro l'ultima sorpresa, dei lecca-lecca, da come ci ringraziano deve essere merce davvero rara, mi dispiace un pò per Chamyso, che in quel momento non c'è, ci rimarrà male. Escono fino al cortile a salutarci, oltre la rete di recinzione del "Mariele" ci sono molte mami che cucinano per terra con i pentolini anneriti dal fumo. Hanno qualche parente ricoverato in ospedale, hanno facce stanche, rassegnate.






 Mi giro un'ultima volta per imprimere nella memoria quell'immagine, poi mentre mi allontano in fuoristrada, ripenso al "Mariele" un luogo fuori dal comune dove si vivono attimi di pura gioia, dove il tempo non conta, dove le parole non hanno alcun significato, e provo già un'immensa nostalgia. Arrivederci Ken, ciao Chamyso, Ciao Ashley&Ashton, a presto Innocent, ciao dolce Viki, ciao angeli neri, ci rivediamo presto nei miei sogni più belli, o negli incubi più crudeli.

domenica 22 agosto 2010

17.06.2009 «La guerra è pace»

Questo è uno degli slogan più forti di Orwell in 1984, magnifico libro che già 60 anni orsono descriveva i pericoli di una svolta autoritaria  e di un mondo controllato dal Grande Fratello.
Se Orwell fosse ancora vivo vedrebbe tramutarsi in realtà questo e altri slogan da lui profetizzati.
In Afghanistan si combatte una guerra in cui gli italiani svolgono un ruolo attivo, una guerra illegale, coloniale, basata su vendetta e interessi strategici ed economici.
Illegale e incostituzionale, in quanto l'articolo 11 della costituzione italiana ci ricorda che:
 L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
Sono anni che sento parlare di Missioni di Pace, ma "la guerra è pace", e quella italiana è una missione di guerra. Siamo sotto il comando della NATO (non certo di una organizzazione umanitaria) e usiamo mezzi progettati per tutt'altri scopi.
Come l'elicottero da combattimento Mangusta, che gli italiani usano in Afghanistan non certo per portare la pace.
Queste operazioni e mezzi sono ben visibili in un recente video; (fonte El Mundo) è in spagnolo ma si capisce molto bene comunque.
http://tv.repubblica.it/copertina/la-guerra-degli-italiani/34010?video

Ultimamente sento/leggo spesso che i militari italiani hanno "neutralizzato" postazioni nemiche, che hanno "neutralizzato" gli "insorti" i "ribelli"; ripenso spesso agli insorti e ai ribelli che ho conosciuto in Afghanistan, gente fiera, con una dignità, che non esiterebbe ad usare le armi per difendere la propria terra e il proprio popolo.
Sono loro gli insorti e i ribelli? è questo "neutralizzare" oppure "effetti collaterali" un ennesimo orrendo eufemismo? Un altro pericoloso e infame esempio di neolingua Orwelliana?

venerdì 20 agosto 2010

Cari Amici,
dopo la cancellazione del mio blog da Excite, ho deciso di trasferirmi qui, troverete presto nuovi contenuti, archivi di immagini ed alcuni dei miei vecchi post.
Un saluto a tutti!   
Matteo

Cartoline dall'Afghanistan: La valle del Panshir